Draghi sa perfettamente che un ulteriore deprezzamento risolverebbe diversi problemi senza eccessivi costi politici. Chi esporta in Francia, Italia, o in Germania, avrebbe un espediente in più per osteggiare la frenata degli ordini dall’estero. E beni e servizi all’import costerebbero un po’ di più, sostenendo la Bce a aumentare il tasso d’inflazione.
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Questo tema sarà oggetto di discussione del consiglio direttivo della Bce che discuterà su cosa stabilire. Ma anche nella gestione del tasso di cambio Draghi avrà sempre lo stesso problema: le spaccature politiche dell’Eurozona, che la Bce cerca di colmare ovviando al vuoto politico dei governi. Il livello dell’euro riguardo alle altri forti valute dovrebbe essere una pratica comune fra la Bce e i leader dei Paesi dell’area, ma questi ultimi paiono incapaci di esprimere un indirizzo: hanno posizioni troppo diverse fra loro. Nel contempo, la Bce ha problematicità a condurre la campagna che sarebbe sicuramente più logica ed efficace: vendite dirette di euro in cambio di dollari. La storia dell’euro, in verità, ha già sperimentato interventi delle banche centrali per influenzare il cambio. Nel novembre del duemila l’Eurotower, la Fed ed altre banche centrali entrarono insieme sui mercati per acquistare euro, caduto a 0,82 sul dollaro, e far comprendere che non ne avrebbero più sopportato un’ulteriore scivolata. Ora però se la Bce agisse da sola, senza l’approvazione della Fed, sarebbe accusata di violare il patto (informale) fra banche centrali del G7 di non interferire mai con le monete degli altri.
Draghi sa perfettamente che questi interventi sarebbero quello di cui Eurolandia ha necessità. Non è quindi escluso che la Bce tenti di far fare al mercato ciò che lei non può fare: vendere euro e acquistare dollari, o altre valute. È per questo motivo che in questi giorni il mercato ha preso posizione sulla ipotesi di un prossimo taglio dei tassi della Bce. Quello principale andrebbe da 0,15% a 0,05% e per il tasso di cambio sarebbe una differenza considerevole.