Una delle discussioni più importanti che si possono intavolare quando si ha a che fare con il mercati valutari è quella relativa al benchmark, il cosiddetto sottostante: il turnover giornaliero di tali piazze ha raggiunto e superato i 4,7 trilioni di dollari, come evidenziato dalla Banca dei Regolamenti Internazionali (Bri), ma gli investitori hanno e avranno sempre bisogno di essere informati su tale questione, in modo da tutelare i loro portafogli finanziari. In effetti, questi mercati sono quasi venti volte superiori in dimensioni rispetto a quelli azionari, oltre che trentasei volte più grandi di quelli obbligazionari.
In aggiunta, bisogna anche tenere conto che tra il 2007 e il 2010 vi è stata una crescita della transazioni pari a quarantotto punti percentuali. Perché il benchmark è così importante in tale discorso? Quando si deve gestire un portafoglio di valute, la selezione del benchmark giusto diventa cruciale per varie ragioni: anzitutto, in vari casi, il sottostante rappresenta la posizione di default del manager in assenza di qualsiasi punto di vista attivo. In pratica, esso svolge il ruolo di un punto di partenza, in grado di formulare le attese preferenze di rischio e di rendimento dell’investitore che è coinvolto. In seconda battuta, poi, esso favorisce la valutazione della performance del portafoglio e di chi lo gestisce.
Uno dei requisiti essenziali per quel che riguarda la selezione del benchmark è senza dubbio una chiara e non ambigua costruzione dell’indice. Altre caratteristiche di rilievo, poi, includono la quotazione giornaliere, il basso turnover e la disponibilità di dati storici. Il fatto che le divise siano scambiate sempre in coppia, infine, è altrettanto determinante. In effetti, una posizione long sul cambio dollaro-yen, ad esempio, significa di solito che ci si trova in tale posizione per quel che concerne la moneta verde e in quella short in relazione alla moneta giapponese (lo stesso discorso, come è normale che sia, vale anche per le altre coppie).