I recenti eventi che hanno coinvolto JPMorgan hanno acceso i riflettori sul problema della regolamentazione finanziaria: quasi quattro anni dopo il crollo della Lehman e l’emergere di una crisi senza precedenti dal 1929, è davvero cambiato qualcosa nel funzionamento delle istituzioni finanziarie?
In primo luogo, se si guarda a quello che è stato fatto, possiamo dire che la Dodd-Frank Act (firmata da Obama nel mese di luglio 2010) per gli Stati Uniti, e gli accordi di Basilea III a livello internazionale, rappresentano senza dubbio dei passi importanti, seppure non raccolgono favori unanimi.
La normativa Dodd-Frank chiede l’attuazione di alcune misure difficilmente contestabili in linea di principio: un maggiore consolidamento delle agenzie di regolamentazione, la migrazione dei prodotti derivati standard verso le camere di compensazione, l’istituzione di meccanismi di risoluzione finanziaria per gli istituti falliti (o in procinto di esserlo), la creazione di una nuova agenzia di tutela dei consumatori (l’Ufficio di protezione dei consumatori finanziari). Essa rafforza altresì la sorveglianza delle agenzie di rating, restringe il trading per i conti bancari propri (la “Volcker Rule”) e limita nella stessa intenzione le possibili relazioni tra banche e hedge fund o fondi di private equity.
► CORSA AL DOLLARO AUSTRALIANO
Per quanto riguarda Basilea III, gli accordi chiedono un rafforzamento del capitale, un aumento dei ratios di copertura di liquidità nel breve e lungo termine e un maggiore controllo della leva finanziaria. E anche se alcuni pensano che tali requisiti siano troppo severi, certi paesi dell’Unione europea, come l’Austria, hanno accelerato l’attuazione di tali norme (il campo è sicuramente già stato preparato da alcune richieste formulate dall’ Autorità bancaria europea, come la necessità per le banche di avere un Core Tier 1 ratio di almeno il 9% entro la fine del 2012). Quindi possiamo dire che vi è un vero lavoro sostanziale da compiere, e che si inscrive nel quadro delle ripetute dichiarazioni del G20, a partire dal novembre 2008, sulla necessità di riformare il sistema finanziario.
► JP MORGAN: BUCO DA 9 MILIARDI DI DOLLARI
Ma i progressi compiuti e i lavori attualmente in corso, non devono oscurare le fonti di fragilità che rimangono numerose e significative, sia nell’attuazione pratica di questi principi sia nelle lacune in termini di coordinamento e armonizzazione internazionale che lasciando il sistema finanziario particolarmente vulnerabile.
Per esempio c’è ancora incertezza circa la nomina di banche ombra (“shadow banks”) di importanza sistemica, e sulla regolamentazione di questo settore bancario parallelo. Un’altra questione fondamentale è l’azzardo morale posto dalla esistenza di istituzioni “troppo grandi per fallire”, le cosiddette too big to fail. Si tratta di un problema dalle molte sfaccettature e che non si applica solo alle banche ma anche alle compagnie di assicurazione. Sarà necessario continuare a lavorare sia sulla prevenzione del rischio di fallimento di grandi istituzioni, che sull’esistenza di chiare procedure ex ante per la risoluzione e l’armonizzazione coerente delle norme tra i maggiori centri finanziari.
Su questo ultimo punto si sta lavorando ma se si guarda alle recenti discussioni circa la vigilanza bancaria europea, e al dissenso (aggravato dalla crisi nella zona euro) tra i partner europei, si capisce che c’è ancora un lungo cammino da percorrere. Permane un aspetto più generale della crisi finanziaria, che minaccia l’efficacia di qualsiasi riforma: quello che potrebbe essere definito come l’escalation della complessità del sistema finanziario e delle sue reti. Serve infatti un insieme di principi semplici e coordinati a livello internazionale che agevolino un finanziamento “sano” dell’ economia, delle aziende e dei privati.