La pressione che viene esercitata in questi ultimi giorni sulla banca centrale thailandese serve essenzialmente a ottenere come risultato il deprezzamento della valuta ufficiale della nazione asiatica, il baht: i metodi possibili sono due, vale a dire la riduzione dei tassi di interesse che vengono applicati sui capitali esteri e un ridimensionamento dei controlli sugli stessi. Non è un caso che a fine gennaio si sia parlato con una certa enfasi delle preoccupazioni valutarie di Thailandia e Corea del Sud.
Il Ministero delle Finanze si è detto pronto a tagliare i tassi in questione, in modo da avere un maggiore allineamento rispetto a quelli che sono adottati sia dagli Stati Uniti che dal Giappone. In realtà, manca l’impegno ufficiale da parte di Prasarn Trairatvorakul, il governatore dell’istituto di credito centrale, ancora convinto del fatto che bassi tassi di interesse per un periodo prolungato di tempo possano provocare delle bolle speculative. Secondo gli ultimi calcoli che sono stati effettuati, con un tasso pari al 2,25% si potrebbe arrivare a una stabilità economica già verso la fine di quest’anno.
Il bath è stato finora protagonista di numerosi rialzi, tanto è vero che ha guadagnato quasi il 3% rispetto al dollaro americano, una performance superiore a quelle del won coreano e del peso filippino. Un comportamento identico a quello della banca centrale in questione è stato quello dell’istituto delle Filippine, visto che è proprio quest’ultimo che si ritiene in grado di bloccare la speculazione con i mezzi in dotazione. Già sei anni fa, comunque, Bangkok ha provveduto a introdurre dei controlli sui capitali stranieri, ma in quel caso il baht continuò a volare verso l’anno e per più di un anno, dunque non si tratta di un precedente incoraggiante. In quella situazione, inoltre, la divisa riuscì a conquistare ben quattordici punti percentuali, con le esportazioni locali che furono capaci di un +30% l’anno successivo.